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“Ciao Robot, come ti chiami?” - Saggio Breve - Scuola Tecnica Freud

21 giugno 2017

Tipologia B-Saggio breve -Ambito tecnico-scientifico

Prof.ssa Daniela Rosa Adele Ferro

Titolo: “Ciao Robot, come ti chiami?” Scuola Paritaria Turismo Freud

 

È facile demonizzare i robot, i computer, ciò che è automatico. Insomma, è facile demonizzare le macchine in generale. Forse perché sono ancora in molti a vederle come strani oggetti da film di fantascienza. Dove, per una strana coincidenza, le macchine sono quasi sempre nemiche del genere umano, sono protagoniste di azioni “cattive”, come se la categoria “buono/malvagio” fosse applicabile a qualcosa che funziona per ingranaggi. Eppure l’opinione comune spesso incorre ancora in questa identificazione. Col rischio di essere disinformati degli effetti positivi che l’impiego della robotica può produrre e che in effetti produce. A partire dalle basi, dall’abc, dal mondo della scuola. Scuola Tecnica Freud Informatica

Anche in questo caso, spesso l’opinione comune generalizza e, generalizzando, non presta attenzione ai progressi che l’apertura delle scuole alle applicazioni della robotica ha realizzato concretamente. Se si perde tempo a ritornare sempre sugli stessi argomenti – “la scuola italiana non funziona”, “la scuola italiana è all’antica”, “la scuola italiana non è al passo coi tempi” – non ci si può certo aspettare che la situazione migliori, non su vasta scala almeno. Si guardi invece a quelle realtà scolastiche che hanno accettato il cambiamento, che si sono messe in discussione e si sono rifatte il guardaroba, digitalizzandosi. Esistono. Ci sono. E i progressi registrati dagli studenti di queste scuole non possono passare inosservati.

La robotica applicata nella didattica è “un’attività interdisciplinare in grado di stimolare gli alunni a mettere in pratica”, scrive Fabiana Bertazzi nel suo articolo “All’Indire un incontro sulla robotica educativa” (dal sito INDIRE). Anche in Italia la robotica ha varcato la soglia di alcune scuole, in misura diversa. Ciò è tuttavia abbastanza per sperare che sia solo l’inizio di un felice connubio. L’Italia è figlia di una divisione settoriale del sapere: da un lato le materie umanistiche, dall’altro quelle scientifiche. Ma la didattica basata su arti del trivio e arti del quadrivio ha smesso di funzionare da un bel po’. Per fortuna. Altrimenti se ne dovrebbe dedurre che la robotica applicata alla didattica sia utile solo alle discipline di ambito scientifico e che nulla possa fare rispetto alle altre. E non è così. L’interazione tra robotica e didattica è formativa sotto tutti i punti di vista. Il sito INDIRE insiste su questo punto, in quanto sostiene che l’approccio alla didattica mediato dalla robotica riesca a sviluppare il pensiero computazionale dello studente agendo sulle sue capacità cognitive. Con benefici ad ampio raggio: lo studente si sente protagonista del proprio processo di apprendimento e, quindi, la sua motivazione allo studio cresce, così come la sua autostima; non solo, ne deriva una capacità di problem solving  più affinata, un’abilità di progettazione più marcata, in definitiva un incremento delle capacità logiche. Che non sono un patrimonio esclusivo di chi si occupa di discipline basate sulla matematica. Forse oggi non si sente sempre più parlare di grammatica computazionale? Oppure gli studenti di un liceo classico non devono ragionare in termini di logica mentre traducono una versione dal latino o dal greco? Forse uno dei contributi maggiori di questo nuovo approccio all’insegnamento e all’apprendimento sta anche nell’aiutare molti a superare un sapere inteso a compartimenti stagni, per abbracciare invece un sapere eterogeneo.

E allora, se la robotica sposa felicemente la didattica – nei suoi aspetti formativi, nel suo plasmare le capacità cognitive dello studente – e sta riscuotendo successo, perché non pensare a un suo utilizzo anche nelle attività sociali, nell’ambito di quei settori che sono caratterizzati dalla relazione di aiuto? Il rapporto tra insegnante e allievo non è poi così diverso, o almeno non dovrebbe esserlo. In parte, questo progetto è già realtà.

La Soft Robotics  è “un campo interdisciplinare che si occupa di robot costruiti con materiali morbidi e deformabili, in grado di interagire con gli esseri umani e l’ambiente circostante”. È quanto si trova scritto sul sito della Scuola Universitaria Superiore “Sant’Anna” di Pisa, sulla cui autorevolezza non sussiste dubbio alcuno. Certo, fa quasi sorridere pensare a un robot morbido, anziché rigido e metallico. Ma forse ciò è dovuto ancora a quello stereotipo costruito dai film di fantascienza di qualche generazione fa. Eppure è un’idea con cui si è chiamati a fare i conti. È una novità da accettare, fare propria e sviluppare. Quanto più possibile. Istituto Paritario Milano Esame di Stato Freud

E la fantasia viaggia. Il settore delle attività sociali è vasto ed articolato al suo interno. Perché non dare sfogo a questa fantasia, e pensare a un robot morbido da utilizzare, ad esempio, nelle RSA, che tenga la mano di un anziano quando è lasciato solo, che lo aiuti nelle azioni quotidiane che il paziente ormai fatica a svolgere, che lo supporti nelle sue passeggiate? E ancora, un’altra suggestione: la soft robotics in sala parto o nelle nursery degli ospedali. Un robot dal volto umano che possa assistere una persona in condizioni di disabilità o di convalescenza, riducendo il trauma dell’ospedalizzazione. Oppure che sia impiegato nelle tendopoli allestite dopo un terremoto (e di esempi recenti ne abbiamo) per dare aiuto ai superstiti o che, prima ancora, fornisca la propria efficienza nelle operazioni di soccorso e salvataggio. Chi non sarebbe fiero di realizzare un robot così? Forse, però, la vera domanda è altrove e riguarda il versante del destinatario. Bisognerebbe approfondire l’impatto sulla popolazione, chiedersi in quanti accetterebbero l’aiuto di un robot, per quanto morbido e dal volto umano.

La fantasia è un mondo. La realtà dei fatti, spesso e (poco) volentieri, un altro. Perché più l’uso della robotica si espanderà in confini ritenuti atipici, più – è inutile negarlo – tale uso dovrà ricadere sotto un insieme di norme, perché quello che è un uso (nato con intenti ammirevoli) non si tramuti poi in un abuso. Il confine è spesso labile. Soprattutto in un campo privo di regole e punti di riferimento solidi.

Il 16 febbraio scorso alla Commissione Europea è stata approvata una risoluzione che riguarda appunto la questione “Norme di diritto civile sulla robotica”. Stando a quanto riporta l’articolo di Alberto Magnani dal titolo “Robot e intelligenza artificiale, i deputati Ue chiedono norme europee” (pubblicato su “Il Sole 24Ore”), i deputati hanno discusso in modo approfondito la questione. Una questione che l’utente medio di internet già conosce: i social network, le varie applicazioni di chat che ormai ci si porta dietro ovunque, ben inscatolate negli smartphone (e alzi la mano chi non ne possiede uno) sono una minaccia continua per la privacy, tanto da chiedersi se una privacy esista ancora, non sulla carta, ma nei fatti. E se Facebook o Whatsapp riescono a invaderla al punto tale da costituire una delle principali cause indirette di separazione coniugale, fino a dove potrà spingersi l’invasività di un robot morbido o fin dove sarà lecito affidare  la didattica alla robotica. Il che, poi, è solo un altro modo di declinare lo stesso problema: fino a che punto il robot può interagire con l’essere umano?

I deputati hanno chiesto cose precise, che ruotano però fondamentalmente intorno allo stesso concetto: poter considerare il robot come una “persona elettronica”, quindi come un soggetto dotato di una propria responsabilità. Oltre che l’obbligo di vincolare gli ingegneri che realizzano tali “creature” a un codice deontologico.

Ce n’è da scrivere per i giuristi.  E per i filosofi che si occupano di etica. E poi si parla di divisione settoriale del sapere.

Prof.ssa Daniela Rosa Adele Ferro


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