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"QUELLA NON SONO IO". A cura della Prof.ssa Daniela Ferro - SCUOLA TECNICA PARITARIA S. FREUD

6 luglio 2016

Sono le parole che circa inconsciamente attraversano la mente di tante adolescenti e giovani donne, quando lo specchio presentano loro quello che per tante è un conto troppo salato: l’immagine del proprio corpo riflessa allo specchio.

Un problema diffuso, quanto sminuito. Banalità del tipo “Ma non è vero che sei grassa”, “Lo dici apposta”, “Sono tutte fisse”.

Queste frasi non sole non sono per niente persuasive, ma finiscono per produrre il risultato opposto: chi le sente pronunciare, radica e incrementa un pensiero ossessivo, che ruota intorno al peso corporeo solo in apparenza. In gioco c’è ben altro: l'assenza di autostima, rapporti difficili in famiglia, un conflitto latente mai superato.

Insomma, l’immagine che noi vediamo allo specchio è ben altra cosa dall’immagine stessa, che è altro ancora dal nostro corpo reale. La percezione visiva s’innesta su tutta una serie di vissuti affettivi e di schemi cognitivi, tanto da costruire ex novo qualcosa che in realtà non c’è. E che spesso è la spia di una profonda sofferenza interiore.

Il primo fu Paul Schilder, negli anni Trenta del Novecento, a definire l’Immagine corporea come “Quel quadro del nostro corpo che formiamo nella nostra mente”. E guardarlo non è solo una percezione visiva. È un’esperienza che genera sensazioni ed emozioni.

Percepire il proprio corpo, per un adolescente come per un adulto, è un fatto più complesso di ciò che inconsapevolmente fa il neonato, perché va oltre la contrazione muscolare o altri “strumenti” fisiologici. Né esiste nella prima infanzia la coscienza di una distinzione tra il Sé e il mondo esterno.

Il processo si affina nel corso dell’infanzia, fino a maturare tale separazione e la percezione delle parti del corpo come elementi di una stessa entità.

I cambiamenti fisici della pubertà e dell’adolescenza iniziano a complicare la percezione corporea.

Tali cambiamenti mettono, infatti, in discussione l’identità del soggetto – più spesso nel sesso femminile. Iniziano i confronti all’interno del gruppo dei pari, sia quelli dello stesso sesso sia con quelli del sesso opposto, con le inevitabili stigmatizzazioni, la percezione di non essere come gli altra, come i ragazzi/le ragazze leader, e la conseguente autosvalutazione.

Non è tanto l’insorgenza di un’insoddisfazione verso il proprio corpo. È piuttosto un problema di accettazione da parte del gruppo. Il pensiero ossessivo, il pensiero-bersaglio assume una forma del tipo “Se gli altri non mi guardano, se gli altri mi prendono in giro, allora significa che io non valgo”. Non è allora una questione del corpo in sé; è il messaggio di cui il corpo si fa portatore, ed è un messaggio di natura sociale e affettiva: il punto è essere accettati, essere amati.

Se all’adolescente manca tale conferma, s’innesca un circolo imperfetto, la cui benzina è l’ansia. Non piacere al gruppo dei pari è un fattore stresso geno invalidante: l’adolescente entra in agitazione, avverte un senso di angoscia; per tenare di placarlo, cerca di esercitare una forma di controllo patologica sulla propria vita, su ciò che pare essere la fonte del disagio: il corpo. In altri termini, il cibo. Con i significati che quest’ultimo reca a sua volta. Il cibo è simbolo di vita, di amore, di pienezza. Limitarne l’assunzione per raggiungere una forma corporea ideale, che tuttavia non sarà mai perfetta, ma pur sempre perfettibile, è allora un atto che dice molto. Dice che quell’adolescente, che sia alla ricerca del consenso, non si ritiene meritevole di amore; dice che non vale la pena vivere. Dice che non si vuole bene, che non si accetta.

Da qui l’importanza di cogliere tempestivamente questi segnali e i messaggi che l’adolescente, attraverso di essi, invia. E non solo al gruppo dei pari, ma anche all’adulto di riferimento, nei confronti del quale spesso si sente inadeguato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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