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MELE E LAME - ALESSANDRO MAGNO E CLITO IL NERO - A cura della Prof.ssa Daniela Rosa Adele Ferro - SCUOLA TECNICA PARITARIA S. FREUD

7 febbraio 2017

“Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. La saggezza popolare condensa anni, secoli, millenni di vicende umane in frasi sentenziose, che noi siamo soliti indicare come proverbi. Essi esprimono con poche parole, magari alle volte gergali, ma ugualmente efficaci, concetti che nascono da situazioni di vita vissuta. Ciò che arriva nel dominio dei proverbi, insomma, non sarà una verità dogmatica né inconfutabile. Tuttavia, se vi arriva, è perché non un solo individuo ha fatto esperienza di quella “verità”, ma anzi questa si è trasmessa di generazione in generazione, arrivando a costituire una sorta di principio empirico, mutuato a posteriori dall’esperienza, che spesso e forse malvolentieri torna a presentarsi.

 Così avviene anche nell’amicizia, alle volte. Pietra preziosa dalle mille e uno sfaccettature. Che assume toni, sfumature, accenti diversi secondo le persone che lega, del contesto in cui si sviluppa, dell’esito cui conduce. E fra i numerosi e più vari di essi dev’essere contemplata anche la morte. Non il decesso per cause naturali: un’amicizia finisce perché un amico passa a miglior vita, va da sé, ma non è questo il punto. L’esito di un’amicizia, seppure solida e di vecchia data, può consumarsi nel sangue, quando un uomo alza la mano (armata o meno) sul proprio amico. Spinto da una gamma pressoché inesauribile di potenziali motivazioni. E lo conduce così alla morte. E fu così dalla notte dei tempi. Perché no, se già la Bibbia, nel primo libro – la Genesi – parla di un uomo che uccide il proprio fratello?    Scuola Paritaria Milano

Racconta lo storico Marco Giuniano Giustino, scrittore attivo nell’Impero romano tra il II e il III secolo dopo Cristo, che delle ambiguità sottese all’amicizia cadde vittima persino Alessandro il Macedone, detto il Grande. Vittima, nel senso che la sua mano fu lo strumento attraverso cui un momento di rabbia poté avere la meglio su anni di amicizia, sulla gratitudine e la riconoscenza.

 Nell’Historiarum Philippicarum Pompeii Trogi (testo a carattere fortemente aneddotico, e per questo in voga fra i contemporanei dell’autore e negli anni successivi), Giustino racconta brevemente, e senza neppure dovizia di particolari, quello che avvenne a Samarcanda, una sera del 328 avanti Cristo. Alessandro Magno aveva dato ordine di allestire un banchetto per fare festa insieme ai suoi fedeli e fidati generali. Le ultime imprese militari avevano arriso al macedone. Bisognava brindare. E si brindò, eccome. Giustino parla di una discussione sorta durante il banchetto come di un dibattito “inter ebrios”. Tra ubriachi, traslato alla lettera. E qual era l’argomento della discussione che, a un certo punto, aveva iniziato a tenere banco fra i convitati? La più pericolosa che si potesse intavolare: il confronto tra le glorie di un padre morto e le fortune di un figlio vivente. Due pezzi da novanta entrambi. E come si era giunti a parlare di un tale argomento?        Istituto Tecnico Turismo

Di questo ci informa non Giustino, che ripercorre brevemente l’accaduto, ma Plutarco, nella sua biografia di Alessandro contenuta nelle Vite parallele. Prima ancora che il banchetto avesse inizio, alcune persone si erano presentate alla tenda del re macedone, ormai signore non solo di tutta la Grecia, ma di una parte cospicua del Medio Oriente, da cui erano stati detronizzati i persiani del Grande Re. Gli stranieri si erano avventurati verso l’interno dalla costa, per portare in omaggio al sovrano alcune ceste di frutta. Alessandro ordinò a Clito il Nero, la più leale fra le sue guardie del corpo, nonché amico intimo del re e fratello della nutrice che lo aveva cresciuto, di condurre gli inattesi ospiti al proprio cospetto e per riceverli interruppe un rito sacrificale già in corso d’opera, nello stupore generale e in special modo degli indovini.

Quando poi il banchetto fu entrato nel vivo, furono letti i versi di un poeta cortigiano, tale Pranico. Versi però inadatti al contesto, giacché provocatori e denigratori nei confronti dei militari, e soprattutto dei generali al comando. Clito il Nero, fra tutti, fu il soldato che si accese maggiormente di ira e rabbia nei confronti del poeta e non perse l’occasione per ricordare ad Alessandro di avergli salvato la vita nella battaglia combattuta sul fiume Granico, la prima di una serie di vittorie ottenute da Alessandro sull’esercito persiano nel 334. I racconti degli storici concordano nel glorificare la possanza di Alessandro, che personalmente, nella mischia, uccise molti nobili persiani. Nella confusione generale, tuttavia, uno di essi, era riuscito a colpire con l’ascia il re macedone, che cadde in uno stato confusionale. Fu in effetti Clito il Nero a tagliare di netto il braccio del nobile persiano, pronto a scagliare il colpo mortale su Alessandro.    Scuola Privata

Quella sera a Samarcanda, secondo Giustino, Alessandro, ubriaco non meno degli altri, iniziò a glorificare le proprie imprese, sostenendo che la loro eco fosse giunta fino in cielo, superando quella del padre Filippo, fra l’unanime plauso degli astanti. Le parti del fu Filippo furono prese da Clito, che difese la memoria e l’onore di colui che aveva fatto grande il regno di Macedonia. Da qui sarebbe scoppiato l’alterco e, in un attimo brevissimo, Alessandro  avrebbe sottratto un pugnale a una guardia che gli era vicina e si sarebbe scagliato contro Clito, uccidendolo. Il verbo utilizzato dallo scrittore latino è forte: “trucidaverit”. Lo uccise con violenza. Poi, lo stesso vigore che prima aveva alimentato la follia di Alessandro, si riversò nel suo pentimento per ciò che aveva fatto. Secondo Giustino, il re afferrò il pugnale per dirigerlo contro se stesso e punirsi dell’omicidio. Solo l’intervento degli altri poté impedire il peggio, pur nel dramma che si era già consumato.

 Nella versione del greco Plutarco, invece, dopo che Clito il Nero ebbe riportato alla memoria del re quanto accaduto sul fiume Granico, i toni della discussione si accesero. Di più. Si incendiarono. Parole forti furono rivolte dall’una all’altra parte, senza esclusione di colpi verbali. E, una parola tira l’altra, la questione si spostò sul sincretismo auspicato da Alessandro, e portato avanti nei fatti, tra tradizioni greche da un lato e usi orientali dall’altro (si pensi alla proskynesis, alla genuflessione davanti al sovrano, uso del tutto alieno alla mentalità greca e deplorato dai sudditi ellenici). Ecco che allora Clito, strenuo avversario di questa politica condotta dal suo re e amico, non gli lesinò critiche ed esaltò la superiorità del padre Filippo sul figlio. A questo punto, Alessandro prese una mela e la lanciò contro Clito, quindi si procurò un oggetto affilato, che gli fu sottratto da uno dei generali. Gli amici di Clito, nel frattempo, si diedero un gran daffare per portarlo via con loro, cercando di prevenire un possibile nuovo attacco alla sua persona da parte del re, che intanto si era adirato con il suonatore di tromba, che non aveva profferito alcun soffio come segnale di allarme. Tutto finito? Evidentemente no. Altrimenti Giustino sarebbe un gran bel bugiardo.

Che cosa fece allora il nostro Clito? Pensò di ritornare alla tenda di Alessandro, ma non certo per starsene quieto o riappacificarsi col re. Entrò anzi declamando versi del poeta tragico Euripide, tratti pare dall’Andromaca, nei quali il poeta rivendicava il merito delle vittorie in battaglia ai soldati, anziché ai comandanti. Fu allora che il re, presa una lancia, trafisse l’amico, che cadde a terra esanime.

Nella versione fornita da Giustino, seguirono giorni e giorni di digiuno. Nel re perseverava la volontà di punirsi. Furono gli uomini del suo esercito a persuaderlo affinché cessasse il periodo di inedia. L’argomentazione risultò convincente: per la morte di un uomo non si poteva correre il rischio di far morire tutti gli altri, o quasi. Cosa che sarebbe successa – temevano i soldati – se Alessandro fosse venuto a mancare.

Evviva la ragion di Stato. 


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